Recensione: House, M.D. S08

ATTENZIONE: SPOILER! LEGGI SOLO DOPO AVER VISTO LA PUNTATA 8×22

Everybody Dies. Con un titolo così, dopo tre puntate da Oscar di una serie come House, capita davvero di trovarsi totalmente spiazzati. Cosa succederà? Procediamo con calma. Signori, riassunto!

La settimna stagione del telefilm si chiude con House che entra con la macchina nell’appertamento della Cuddy dove questa si trova a pranzo con un altro uomo, non prima però che tutti gli inquilini si siano spostati in un altro locale. Risultato: House in fuga. Su una spiaggia. Felice.

Poi è iniziata questa stagione, che si è saputo essere l’ultima solo dopo qualche settimana dalla messa in onda. Il Dottore è in prigione (e non certo perché qualcuno è stato così bravo da incastrarlo) ma da subito appare chiaro come questa non fosse una storyline destinata a durare. Solo una citazione: la scelta di rinunciare al Vicodin pur di uscire con la condizionale.

Il ritorno al Plainsboro avviene grazie a Foreman, nuovo capo al posto della Cuddy che abbandona definitivamente ospedale e telefilm. Questo si offre come “garante” di una libertà vigilata che in realtà non è quasi mai una minaccia credibile (fino al finale, ma questa è un’altra storia).

La stagione scorre veloce, tra nuovi membri del Team (Park e Adams) e felici quanto necessari ritorni (Chase e Taub). A giudicare dal livello medio degli episodi non sembra affatto di essere ben oltre i cento episodi.

Poi arrivano le puntate della madre di House che si finge malata di Cancro e dello stesso House che si finge a sua volta malato per analizzare il comportamento del suo team. Qui capisci che la produzione ha imboccato l’autostrada verso il gran finale. Qui scopri che l’ultima puntata si intitolerà “Everybody Dies” e inizi a chiederti se la menzogna di House (fingersi malato) non sia in realtà a sua volta una menzogna (seriamente, dopo anni passati così, a pane e Vicodin, House è “troppo” in forma). Ma no, poi capisci che non è quella l’intuizione giusta. Non ci sono i presupposti per una malattia e una dipartita di House in tal senso non avrebbe alcuna motivazione in relazione alla mitologia della serie.

Poi torna Dominika, personaggio assolutamente marginale nelle stagioni passate. Ed irrompe in modo deciso nella quotidianità di Gregory che, con la scusa di concederle la cittadinanza (i due si erano sposati proprio per concedere alla giovane di restare negli States), finisce per innamorarsene sul serio, visto che il personaggio non è affatto superficiale come potevamo pensare. Ma, anche qui, House è lo stesso di sempre (d’altronde “Nessuno cambia”) e anche questa storyline si chiude con un quasi-nulla di fatto (dico quasi perché in realtà la bella Dominika ci mostra quanto House possa davvero essere amato, anche dopo tutto quello che ha passato in questi ultimi anni).

Capita poi che Chase venga ferito quasi a morte da un paziente e si ritrovi da un giorno all’altro con la prospettiva di non camminare più, salvo poi venir salvato proprio dal suo Capo che ormai non è nient’altro che una versione un po’ più anziana di lui, ma questo lo scoprirà (e lo scopriremo) a breve.

E infine, quando tutto sembra così confuso, a poche puntate dalla fine, arriva la mazzata. Di quelle che taglierebbero le gambe a chiunque. Wilson ha il Cancro. Wilson, l’oncologo del Plainsboro, ha il Cancro. Wilson, l’unico vero amico di House, che proprio in House ha a sua volta l’unico vero amico, quello che non è andato a trovare durante la permanenza in carcere, ha il Cancro. In questo preciso istante realizzi che conta poco il fatto che il rapporto tra i due si sia ricucito troppo velocemente dopo le vincende della settima stagione. Wilson ha il Cancro e House non può fare niente per salvarlo.

Da quel dialogo in poi gli autori (e Laurie stesso) infornano tre puntate in fila che raggiungono livelli così vicini alla perfezione da non poter fare alcun paragone. Il Cancro è una cosa che non può essere sconfitta. Bisogna solo affrontarla e combatterla. House e il suo genio non possono nulla, quello che serve a Wilson in questo momento non è l’eccelso Dottore, ma il fragile amico. Lo stesso oncologo condivide con Gregory la sua decisione di provare una “bomba” di Chemio per aggredire il tumore e tentare l’operazione. Inizialmente Wilson vuole provare la flebo a casa sua, da solo, ma House è ovviamente disposto a rischiare tutto pur di non lasciarlo solo (l’ha già fatto in passato). La casa di House diventa il Capezzale di Wilson. La flebo è attaccata. O ti svegli il mattino dopo (e vivi), o muori. I due passano una nottata indimenticabile, tra le offese che il malato rivolge all’amico di sempre e le sofferenze inenarrabili provocate dalla cura. Wilson si sveglia, scoprendo quello che House ha combinato nella notte: un festino a base di Escort e “Foto con il morto” che hanno un senso (e che senso) solo se interpretate come simbolo di inguaribile ottimismo, quello che magari non ti aspetti da uno la cui vita è solo sofferenza. Questo è stato, in assoluto, il momento più alto di tutta la storia che ci hanno raccontato in questo telefilm.
Ma poi scopri che il tumore ha vinto. Che non c’è più niente da fare. Wilson è un “morto che cammina”. E in questo preciso istante comprendi la dualità che può avere un titolo come “Everybody Dies”. Cosa ne sarà dei nostri eroi? Wilson morirà, è un fatto. E anche House, che per un istante si era scoperto ottimista, non sta meglio. Che bello vedere che in tutta questa storia il Vicodin c’entri ben poco (House arriva addirittura a dividerlo con Wilson pur di alleviare i dolori di quest’ultimo). Rimane giusto il tempo per un’ultima discussione: Wilson non si vuole curare (troppe le lotte inutili che ha visto nella sua carriera) e desidera solo passare i suoi ultimi cinque mesi con l’amico. In un primo momento House non accetta la rassegnazione, ma poi il rispetto della volontà del prossimo prende il sopravvento. Ed è così che ci incamminiamo diretti verso il gran finale. Non prima di aver concesso il dovuto tributo a quel Chase che ormai ha terminato il suo “apprendistato” con House e che è pronto ad eguagliare (e, perché no, surclassare) il Maestro a capo di un suo team di diagnosti. Bell’addio.

Gran finale, dicevamo. House, disperato per la prossima perdita dell’unica persona che lo tiene legato al mondo della ragione, non vuole altro che passare i prossimi cinque mesi in compagnia dell’amico morente. Se non fosse che la liberà vigilata gli viene revocata per colpa di uno stupido scherzo costato la rottura delle tubature dell’ospedale. Tornerà in galera, dunque. Per sei mesi. Non vedrà più Wilson che sarà costretto a morire solo. L’ultimo paziente di House prima del ritorno in cella è un eroinomane, convinto di quanto la droga possa fargli dimenticare il mondo e tutti i suoi dolori. Gregory si sveglia in un palazzo in fiamme, con a fianco una siringa e il suo paziente. Morto. House alla fine ha ceduto e di fronte all’impossibilità di restare con l’amico fino all’ultimo istante ha deciso che questa vita non vale più la pena di essere vissuta. Inizia un illumimante discorso con il suo subconscio che prende via via la forma delle persone che per lui sono state importanti o motivo di riflessione: Kutner, Amber, Stacey. Sembrano tutti volerlo spronare ad andare avanti. House ci prova, ma il pavimento cede e si ritrova nel “girone” sottostante (sì, l’edificio ormai è una palese metafora dell’inferno). Qui incontra Cameron che tenta di convincerlo che la scelta migliore sia quella di farla finita. Anche lui si merita un po’ di pace. Questa prospettiva stride con quanto detto da House a Taub poco prima, mentre parlavano della decisione di Wilson di non curarsi: “La vita è dolore. Mi sveglio ogni mattina pieno di dolore. Non sai quante volte ho pensato di farla finita”. House realizza finalmente che cambiare è possibile, che è da codardi rinunciare alla propria vita, per quanto sia triste, e costringere un amico come è Wilson a finire i suoi giorni nello sconforto più assoluto, solo e senza chi ti è stato vicino per una vita intera. Si alza. Proprio in quel momento, all’esterno dell’edificio, arrivano Foreman e Wilson (che, giustamente, temono che House abbia infine ceduto alla prospettiva del suicidio). Giusto il tempo di uno sguardo struggente ed ecco che una violenta esplosione si porta via l’ultima ombra di Gregory. Al Plainsboro il corpo carbonizzato viene riconosciuto come quello di House grazie all’impronta dentale. E’ finita. E’ tempo di organizzare il funerale. La scena è commuovente. I compagni della vita di House, Wilson in testa, ne tessono le lodi senza mai cedere alla retorica e soprattutto senza nascondere quanto complicata fosse la sua personalità. Proprio mentre questo sta pronunciando l’ultimo saluto all’amico che non vedrà mai più, quello che l’ha abbandonato nel momento del bisogno, riceve un messaggio: “Shut Up. Idiot!”. Wilson prende la macchina e raggiunge un House più vivo che mai sulle scalinate di un edificio. D’altronde a sostuituire i risultati di una impronta dentale sono capaci tutti. I due partono allora per il viaggio in moto che avevano programmato da tempo e si congedano sulle note di una canzone che più o meno racconta questo: “Come farai a fare quel viaggio che avevi rimandato l’anno scorso, se ora sei sei piedi sotto terra?”.

Si chiude così, con una lode un po’ forzata al “Carpe Diem”, una delle serie televisive di maggior spessore della storia recente. Basata su una buona scrittura, sulla scelta quasi sempre azzeccata dei personaggi, ma soprattutto sulle incredibili capacità espressive di Laurie (che andrebbe premiato in qualche modo). E’ bello, bellissimo vedere come in otto stagioni gli autori siano riusciti a non cadere mai nell’ovvio, a non concedersi a cadute di stile clamorose solo per rastrellare qualche spettatore in più.

Ma allora qual è la fine di House, M.D.?

Semplice: Everybody Dies. Tutti muoiono. Quindi è assolutamente necessario non perdere tempo. Wilson è morto o, perlomeno, lo sarà a breve. Ma anche House lo è. Perché il personaggio regge fino a quando lo si proietta nell’universo del Plainsboro. La scelta di Gregory di simulare la propria morte (rimettendoci la libertà e la carriera) pur di stare vicino all’amico nei suoi ultimi mesi di vita ci racconta che egli stesso non ha futuro dopo la dipartita di Wilson e che è assolutamente necessario non sprecare il tempo prezioso che viene concesso ad entrambi. Ecco quindi che la scelta del protagonista assume un senso. Non è un Happy Ending (e come potrebbe esserlo, visto il destino ineluttabile che attende entrambi?) ma una decisa presa di posizione degli autori. Che per questo non se la sentono di mettere per davvero la parola “Fine” a questa storia. Perché in fondo nessuno sa come andrà a finire. Di sicuro, si diceva, c’è solo la morte: Wilson potrebbe infine decidere di curarsi e migliorare la sua aspettativa di vita, House potrebbe perfino riuscire a cambiare (l’ha già fatto, rialzandosi nell’edificio in fiamme) e rifarsi una vita quantomeno sopportabile dopo la morte dell’amico. Come egli stesso ha avuto modo di constatare le occasioni non gli sono mancate. E potrebbero non mancargli in futuro. Al Plainsboro nessuno prova rancore nei suoi confronti, tantomeno quel Chase (che possiamo in qualche modo vedere come suo “figlio”) e che ora ha preso il suo posto. Qual è, dunque, la fine di House? Che la vita e il destino ci pongono spesso di fronte a situazioni difficili, spesso apparentemente impossibili da affrontare, ma l’animo umano è infine capace di cambiare per adattarsi e sopravvivere. Nei limiti di quello che gli viene concesso da una entità superiore che in House non potrà mai chiamarsi “Dio” ma solo “Natura”.

PS: ma solo io ho visto in questo bellissimo finale un evidente richiamo a ciò che è accaduto nell’ultimo episodio di Lost? Anche qui il tema sembrava essere quello del “Live Together, Die Alone” (uno suicida, l’altro malato di Cancro), salvo poi comprendere che, prima o poi, tutti sono destinati a ricongiungersi alle persone care, prima di andare avanti (i cinque presunti mesi di fuga per House e Wilson).

Chissà. Quello che è certo è che House è finito e, nel ringraziare gli autori di questo successo (e nel congratularmi con loro), spiace constatare che la televisione perde qualcosa che difficilmente potrà ritrovare in futuro.

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